I corpolori di Maura Canepa
Stendersi, alzarsi, muoversi, volgersi, fermarsi, trattenersi, slanciarsi, unirsi. Assembrarsi. Verbi che necessitano di un corpo che vive. Riflessivi che hanno bisogno di un soggetto che è in un qui che non può essere Flatlandia, l’immaginario mondo ideato da Abbot in cui si vive a due dimensioni, in una sorta di grande tela in cui la grammatica dei verbi è confinata a uno spazio piatto. Il mondo che diviene pittura. Con Canepa c’è un rovesciamento. Nella pittura i suoi colori vivono la quadridimensionalità della realtà. La tela non basta, infatti. Diviene un basamento, non uno spazio su cui dipingere, ma un luogo in cui porre in essere il dinamismo temporale dei corpi. A ogni mondo però il proprio soggetto: nella realtà gli esseri viventi, nelle tele i colori. I colori si fanno corpo. Sono corpolori. Chi meglio di un artista che nasce figurativo ma che poi passa all’astrattismo per approdare infine all’informale, può poi comprendere l’essenza più propria del colore che vive? Tuffarcisi dentro per afferrarne la matericità e restituircela in tutta la sua sorprendente vitalità? A Maura Canepa quei colori – che raffiguravano i soggetti delle sue tele, che stendeva per tratteggiare lo spazio, che combinava per rappresentare autenticamente la realtà – dicevano di più: pretendevano e proclamavano la loro propria autonoma esistenza.
Sicuramente, alla domanda «Che cosa significano ‘rosso’, ‘blu’, ‘nero’, ‘bianco’?» potremmo indicare immediatamente certe cose che hanno quel colore. Ma questo è anche tutto; più oltre, la nostra capacità di spiegare i significati non va1.
Che cosa è il colore? «Non vogliamo trovare una teoria dei colori (né una teoria fisiologica né una teoria psicologica), bensì la logica dei concetti di colore. E questa riesce a darci ciò che, spesso a torto, ci si è aspettati da una teoria»2. L’invito di Wittgenstein spinge a un primo interrogativo: il colore può essere causa di bellezza in sé, per dirla con Eco?3
Burri vivificava qualsiasi oggetto, spingendolo a trasudare vita, a narrarla, a urlarla, anche quando era un semplice sacco di plastica. Canepa no, benché si avverta da lontano l’eco del grande maestro. Lei si muove verso il colore stesso, punta su di esso, strappandolo dalla sua stessa irrealtà per guardarlo, per osservarlo, con una brama che diviene mania e che chirurgicamente obbliga la luce a far apparire ciò che non c’è. E quando l’afferra cerca di rinchiuderlo, di trattenerlo, di mostrarlo, di agghindarlo. E lui si ritrae e fa l’amore con altri colori e sfugge e scompare e riappare. E lei, come un’amante che non si arrende, tenta di educarlo, di addomesticarlo, di tradurlo in un mondo che lo rifiuta pur amandolo nel più totale dei modi. Perché il colore non è mai solo. Non ci basta. È sempre il colore di qualcosa. Con Canepa esso stesso è qualcosa e le tinte sono sfumature del corpo che esso è. Come dar vita all’inesistente. Come vedere il tempo in sé.
Soltanto lo stolto osserva la tela e cerca la forma nel colore. Chi invece comprende la passione di Canepa, si trattiene sul colore e lo vede nella sua pura essenza, nel suo incarnato. Quella sì è la forma del colore, il suo carattere irruento, inquieto e inquietante, malinconico, passionale, primitivo, viscerale. Dionisiaco. Pura ἐνέργεια (enérgheia). Caos. Non c’è parvenza, non c’è apparenza, non c’è espressione, c’è sempre intensità. Così qualsiasi cosa, persino il cartone, può diventare luogo privilegiato. Per osservare le opere di Canepa bisogna difendersi dunque anche dalla deriva pareidolica della nostra percezione. Non c’è alcuna intenzione formale. Il suo scopo non è questo perché semplicemente è senza scopo. Ricorda molto la volontà schopenhaueriana. L’energia pura, che è materia, che è corpo, non necessita né di ordine né di proporzione. Vuole vivere. Inconscia, cieca, arazionale, unica, senza scopo, incausata. Ma è costretta a farsi mondo. Materia. Corpo. Come il colore.
La volontà, di cui la vita umana, come ogni fenomeno, è l’oggettivazione, è un aspirare senza meta e senza fine. L’impronta di questa infinità, la troviamo impressa anche su tutte le parti dell’intero suo manifestarsi, dalla forma più universale di esso […] fino al più compiuto di tutti i fenomeni, la vita e l’aspirare dell’uomo4.
Il colore si oggettiva nella realtà, certamente, in modi finiti e particolari, ma è sempre incompiuto e gli enti sono sempre inadeguati a restituirne l’essenza più propria. Canepa lo sa e per tal motivo ha abbandonato il figurativo. Lo ha compreso fino in fondo. Tutti i suoi lavori lo urlano. Così con la sua pittura coglie in modo metafisico quest’oggettivazione
dell’energia infinita nella realtà finita e ce ne racconta lo scontro, la sofferenza, l’inadeguatezza, la radicale incompiutezza. Il colore che essa è nella sua polivocità. È questa la logica dei concetti di colore, che proponeva Wittgenstein? Il colore però, in tal modo, è in sé ἄλογος(álogos), arazionale e irragionevole e inverosimile e inesprimibile. Siamo noi a confinarlo in un’esistenza reale, razionale e comprensibile.
Nei prati in cui noi vediamo margheritine bianche tra l’erba verde, le mucche vedono invece presumibilmente margheritine bianche tra l’erba gialla, e le api erba gialla e sgargianti margheritine verdazzurre. Quali sono i veri colori dell’erba e delle margheritine? Il fatto che lo stesso mondo appaia in tinte diverse a creature diverse rende chiaro che questa domanda non ha senso. Gli oggetti non sono colorati. Il colore è un’esperienza puramente soggettiva che dipende da due cose: la luce che gli oggetti riflettono e le proprietà del sistema visivo di chi guarda. Se eravate convinti che il colore fosse un’indissolubile proprietà dell’oggetto siete in buona compagnia, visto che fino a poco più di tre secoli fa della stessa cosa erano convinti anche tutti gli altri5.
Paola Bressan nel Colore della luna spiega la complessità della visione tricomatrica che ci consente di percepire 150 tinte differenti che, moltiplicate per i valori possibili di chiarezza e di saturazione, possono giungere a 7 milioni e mezzo di colori percepibili. Senza la luce però nessun colore esisterebbe e modulando la luce lo stesso colore subirebbe un cambiamento persino radicale, non in sé ma per la nostra percezione. Eppure che i colori abbiano una ricaduta reale sul nostro umore e sulla percezione che gli altri hanno di noi è ormai noto. Non è dunque un’esperienza puramente soggettiva. Il colore è un evento suggestivo che trascina altrove l’orizzonte ordinariamente noto della nostra percezione. Lo ancoriamo all’oggetto, alla cosa, all’ente ma in realtà lo nientifichiamo senza comprenderlo, per rimanere nella nostra zona di comfort.
Provi invece l’osservatore a porsi di fronte a un’opera di Canepa, di fronte alla potenza euforica della sua presenza reale. Provi l’osservatore a divenire un semplice tu che usa la vista nella sua più naturale intenzionalità, un tu che sospende il giudizio, che opera una vera e propria epoché. E accade lo straniamento, ci si ritrova avvolti nell’Unheimliche.
Una mano viene fuori e ti prende per il colletto trascinandoti dentro. Il coinvolgimento emotivo è totale. Non devi pensare. Non devi chiederti che cosa Canepa voglia dire, rappresentare, fare, illustrare. Nulla. Rimani in ascolto. Sii solo corpo e lascia che il tuo Io tronfio si dimeni incatenato. Lascia che il rosso e il nero e il giallo e il marrone e il grigio e il bianco e il viola si stendano, si alzino, si muovano, si volgano, si fermino, si trattengano, si slancino, si uniscano. Si assembrino. Lascia che ti costringano a fermarti, a interrompere la fuga dal quotidiano, dal tempo umano del dover fare, del dover essere; lasciati costringere a sentire la deriva, la paura. A sentirli mentre ti attraversano. Lascia che ti costringano a guardare nel fondo oscuro della tua irrazionalità, ad abbandonare l’eco molesta della tua soggettività, a osservare nel pozzo vermiglio dei tuoi desideri, a bere dal calice delle tue nascoste verità. Lascia che essi si prendano cura della tua più autentica inquietudine, scuotendoti come un fusto sradicato. Non fuggire dalla paura di chi non vuoi essere ma sei. Tu sei questo. Corpo. Null’altro. E sei niente. Come il colore che è corpo ed è niente.
Strumenti e giocattoli sono il senso e lo spirito: ma dietro di loro sta ancora il Sé. Il Sé cerca anche con gli occhi dei sensi, ascolta anche con gli orecchi dello spirito. Sempre il Sé ascolta e cerca: esso compara, costringe, conquista, distrugge. Esso domina ed è signore anche dell’io. Dietro i tuoi pensieri e sentimenti, fratello, sta un possente sovrano, un saggio ignoto – che si chiama Sé. Abita nel tuo corpo, è il tuo corpo. Vi è più ragione nel tuo corpo che nella tua migliore saggezza. E chi sa a quale scopo per il tuo corpo è necessaria proprio la tua migliore saggezza? Il tuo Sé ride del tuo io e dei suoi balzi orgogliosi6.
Così l’uomo che sembra ai margini dell’opera di Canepa finisce per divenire il centro. La sua ricerca artistica è tensione essa stessa. Ciò che dipinge è il colore come energia, forza pura, puro desiderio. Diviene in tal modo espressione della volontà di vivere dell’uomo, che qui si traduce in volontà di apparire (non è forse la stessa volontà?). È infatti nella natura dell’umano un inesauribile desiderio che lo rende sempre inappagato. Una tensione che si traduce in continua attesa, alimentata costantemente dalla volontà pura del corpo che fortissimamente vuol continuare a esserci. Una tensione inarrestabile che si alimenta della speranza di una compiutezza che non arriverà mai. Nessun ente mondano può rappresentare questa forza tracimante che abitandoci ci fa essere puro desiderio. Nelle opere di Canepa invece le diamo un volto o semplicemente le togliamo un velo. E ci vediamo. Siamo corpo che vive. E in quanto tali siamo colore.
Note
1 L. Wittgenstein, Osservazione sui colori (Remarks on Colour), Biblioteca Einaudi, Torino 2000, § 102, p. 52.
2Ivi, p. 9. In questo passo vi è un chiaro riferimento alla Teoria dei colori di Goethe (il riferimento diverrà esplicito nel prosieguo del testo), il quale riteneva – attaccando direttamente Newton che aveva indagato i colori in Opticks – che bisognasse andare al di là degli aspetti semplicemente matematici e fisici nello studio dei colori. Per il poeta tedesco una vera scienza dei colori dovrebbe tener conto che la loro esistenza in natura è strettamente collegata alla visione e alla soggettività umana, mentre, a parere di Goethe, Newton non aveva costruito la sua teoria a partire dal fenomeno percepito. Il poeta coinvolse il giovane Schopenhauer nella sua ricerca, il quale definì una sua teoria dei colori ne La vista e i colori distaccandosi in parte dal maestro ma rimanendo convinto dell’errore newtoniano. Di fatto Goethe non tenne a battesimo l’opera di Schopenhauer come questi avrebbe sperato e con sua grande delusione.
3 Cfr. U. Eco (a cura di), Storia della bellezza, Bompiani, Milano 2018.
4 A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione (Die Welt als Wille und Vorstellung), trad. it. S. Giametta, Bompiani, Milano 2006, Libro IV, § 58, I 379, p. 627.
5 P. Bressan, Il colore della luna. Come vediamo e perché, Editori Laterza, Bari 2009, pp. 53-54.
6 F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno (Also sprach Zarathustra. Ein Buch für Alle und Keinen), a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 2008, «Dei dispregiatori del corpo», pp. 33-34.
Per contattare l’artista: mauracanepa58@tim.it
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